sabato 3 dicembre 2011

Corriere della Sera, 2 dicembre 2011

L'INTERVISTA

«Produciamo immaginario e difendiamo i nostri diritti»

Elio Germano: «Anche il pubblico è più consapevole».
Dal cinema all'autogestione: l'attore «apre» la nuova sala e parla del suo impegno

Elio Germano è l’esempio perfetto di un modo nuovo di vivere la scena. Sulla scia del Teatro Valle di Roma, occupato prima che diventasse un supermercato o qualcosa del genere, c’è da parte dei «nuovi» attori una consapevolezza diversa, un riscoprire la necessità sociale del teatro. Il Quirinetta è una sala che per una volta apre e non chiude. E l’inaugurazione spetta a uno dei più apprezzati talenti italiani, Elio Germano, atteso nel monologo Thom Pain di Will Eno. «Mi spiace che lo faccia io, sarebbe stato meglio che lo avesse interpretato un attore meno riconoscibile».
Perché?
«C’è un unico personaggio, come se fosse capitato lì per caso, non sappiamo se è un attore professionista o se sta improvvisando, cerca di intrattenere il pubblico, di farlo ridere, non ricorda nulla, le luci non si accendono e si costruisce e decostruisce un immaginario, per questo era meglio scommettere su un volto non noto, è scritto per un attore di questo tipo, c’è l’aspetto del dubbio... ».
Una volta a teatro gli attori di cinema arrivavano a fine carriera, oggi invece lei, Timi, Orlando lavorate a pieno regime.
«Il problema è che la crisi è grave, non c’è lavoro, tutto deve essere in funzione degli incassi ».
Lei è uno dei motori della protesta del Valle, uno dei fondatori dell’associazione 7.06.07 (la data di nascita dello Statuto sociale europeo degli artisti).
«Ci stiamo allontanando gli uni dagli altri, è una società fatta di schermi. Al Valle abbiamo vissuto un’esperienza in diretta, la voglia di partecipare, che può essere un corteo o uno spettacolo teatrale. Volevamo dire: siamo cittadini anche noi».
L’esigenza di riempire un vuoto?
«Sì, il vuoto degli sms o degli scambi sociali come simboli, la vita ormai ne è piena. Prima era simbolico solo andare a teatro. Oggi si va a teatro in una luce diversa, è un invito a uscire dalla propria solitudine ».
Lei sta dipingendo una società ideale.
«Io dico che c’è quantomeno una nuova necessità, per rompere questo mondo dove tutto è in funzione del business. E ognuno la declina nel proprio ambito professionale».
Elio Germano, 31 anni, in «Thom Pain» di Will Eno
Però l’egocentrismo fa parte del dna della sua categoria, è stato un boomerang per le vostre battaglie civili... 
«Io a teatro non lavoro per farmi applaudire. C’è da parte di migliaia di persone la voglia di farsi carico di spazi comuni, pubblici. Prendiamo la Rai, per cui si paga il canone. È assurdo che i vertici siano scelti dai politici piuttosto che dagli azionisti di questo bene comune, che siamo tutti noi. Una illusione? Oggi c’è Internet. Così come si vota per il Festival di Sanremo, si potrà votare il prossimo direttore del Tg1. E così nel teatro, nella scuola negli ospedali. Dobbiamo considerarci proprietari del sistema collettivo. Noi attori, dal Valle alla nostra associazione, stiamo lavorando in questa direzione, per esprimere le opinioni in modo personale».
Faccia un esempio concreto.
«Il diritto all’equo compenso per lo sfruttamento della nostra immagine. Se viene ritrasmesso un nostro film, secondo una legge europea degli anni 70 mai applicata in Italia, c’è un diritto per l’interprete connesso al diritto d’autore. Qui non è mai stato riconosciuto. Noi attori non sapevamo tante cose, abbiamo deciso di auto informarci, di individuare il grande potenziale per uscire dal precariato. La vecchia Imaie, che dovrebbe occuparsi dei nostri diritti, ha inghiottito una voragine di soldi. Del passato se ne occuperà la magistratura, da oggi in avanti dei nostri diritti ce ne occupiamo noi stessi, senza delegare estranei».
Fino all’invasione del tappeto rosso, da parte di centinaia di attori al Festival del cinema di Roma di un anno fa, le vostre rivendicazioni erano viste come la protesta di una casta. Da quel giorno è cambiata la percezione dell’opinione pubblica nei vostri confronti.
«Quando per girare un film blocchiamo una strada, la gente ci grida di andare a lavorare. C’è la colpa della tv, che poteva essere una possibilità e non lo è stata e del potere per cui la cultura diventa controproducente. Anch’io mi chiedo se sia ancora possibile investire nella cultura. Abbiamo smarrito l’idea della saggezza e della sapienza. C’è la stima per quello che si ha, non per quello che si fa».
Lei vorrebbe ricollocare il teatro di prosa al centro della società. Una necessità vitale, prima che culturale. Ma intanto il budget della cultura è passato dallo 0,39 allo 0,19 (contro l’1,7 della Francia): cosa chiederebbe al nuovo ministro dei Beni culturali?
«Noi attori paghiamo le tasse con la partita Iva, con le stesse regole di chi possiede una pizzeria. Gli attori vengono calcolati dalla legge in modo improprio, come se non esistessimo. La nostra ricchezza è l’immaginario che produciamo. Dev’esserci un’altra logica. È una battaglia che non riguarda solo gli artisti ma tutti i lavoratori della conoscenza, gli insegnanti, i ricercatori. Ne parlo spesso con i miei colleghi. Un mondo ideale? Forse. Però si vivrebbe meglio».
Valerio Cappelli
2 dicembre 2011

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